La “COP della verità” che nessuno era pronto ad ascoltare

La 30ª Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC) si è appena conclusa a Belém, in Brasile. Per la prima volta il negoziato globale si è svolto nel cuore dell’Amazzonia, un luogo che incarna al tempo stesso la massima vulnerabilità alla crisi climatica e uno dei più grandi potenziali di soluzione. Presentata fin dall’inizio come una COP segnata da forti dualismi — anche per via delle ambigue strategie politiche del Paese ospitante — l’appuntamento non ha tradito le aspettative.

L’etichetta di “COP della verità”, coniata dal presidente brasiliano Lula, aveva alimentato speranze di svolte politiche, strumenti concreti e un rinnovato senso di urgenza. L’approvazione lampo dell’agenda negoziale e gli interventi drammatici dei delegati provenienti dai Paesi colpiti dai recenti eventi estremi avevano rafforzato l’impressione che, questa volta, qualcosa potesse davvero cambiare. La prima verità emersa, la più dura da accettare, è ormai difficilmente contestabile: mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 °C non è più possibile. Quella soglia verrà oltrepassata negli anni Trenta; tuttavia, con una mitigazione molto ambiziosa, l’overshoot potrebbe essere contenuto e la temperatura riportata sotto il grado e mezzo entro la fine del secolo. Non si tratta dello scenario auspicato, ma dell’unico ancora compatibile con una relativa sicurezza climatica.

Belém, però, ha mostrato anche un’energia diversa. Dopo anni di conferenze ospitate in Paesi con spazi democratici limitati — come Egitto, Emirati Arabi e Azerbaijan — qui si sono finalmente riaperte le piazze e gli spazi di partecipazione politica. Dalla Cúpula dos Povos, il controvertice organizzato all’Universidade Federal do Pará, alla Marcha Global pelo Clima, una mattinata di colori, incontro e mobilitazione civile: un’intensità che non si vedeva da tempo.

Questa è stata anche la prima COP senza delegati statunitensi: un’assenza che, paradossalmente, ha reso gli Stati Uniti più presenti che mai, sia nelle discussioni ufficiali sia in quelle informali. Il vuoto lasciato da Trump ha alimentato l’idea che potessero aprirsi nuovi margini di convergenza tra Nord e Sud del mondo, tra scienza e politica, tra attivismo e diplomazia.

L’incendio scoppiato all’interno dei padiglioni ha però bruscamente interrotto questo slancio iniziale, portando alla luce verità più scomode. L’attuale modello multilaterale non è più in grado di sostenere il peso del negoziato climatico: è fragile, facilmente paralizzabile e troppo vulnerabile agli interessi di pochi attori. COP30 mostra con chiarezza che, senza una riforma profonda del processo, sarà difficile immaginare conferenze future capaci di produrre decisioni all’altezza dell’urgenza.

In questo contesto di tensioni si è manifestata chiaramente la presenza di due blocchi opposti. Da un lato, un gruppo di 24 Paesi, tra gli 82 che avevano richiesto una roadmap esplicita per l’uscita dalle fonti fossili, ha sostenuto l’audace proposta colombiana della Belém Declaration e di promuovere un percorso parallelo con una conferenza dedicata nel 2026. Dall’altro lato, diversi Paesi arabi hanno chiesto di escludere qualsiasi riferimento ai combustibili fossili, sostenendo che menzionarli avrebbe potuto compromettere l’intero negoziato. Due approcci opposti che hanno reso evidente la difficoltà di trovare una posizione condivisa.

Le conclusioni della COP evidenziano come il pacchetto più atteso della COP30, il Global Mutirão, che avrebbe dovuto colmare i limiti degli NDC (Nationally Determined Contributions) e includere una roadmap ufficiale di uscita dai combustibili fossili, si è rivelata invece solo uno strumento di procrastinazione. La roadmap è scomparsa del tutto dal testo e non è presente nessuna menzione ai fossili. Al suo posto sono apparsi due strumenti volontari e poco incisivi, il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5, che rinviano l’azione più che accelerarla. Un chiaro arretramento rispetto al “transitioning away” di Dubai. Sul fronte finanziario è stato introdotto un work programme per triplicare la finanza per l’adattamento entro il 2035, mentre sulle misure commerciali (come il CBAM) la COP ha invitato a evitare che le politiche climatiche diventino barriere al commercio. Sono stati adottati anche poco più di cinquanta indicatori del Global Goal on Adaptation, ma in forma volontaria e non comparabile, rimandando di fatto alla COP32 il lavoro sostanziale sull’adattamento.

L’unico passo avanti riguarda la giusta transizione, ma quasi esclusivamente sul piano sociale. Il testo finale rafforza il diritto a un ambiente sano, valorizza il ruolo delle comunità indigene e riconosce l’importanza di istruzione, competenze, protezione sociale e lavoro dignitoso, includendo finalmente settori spesso ignorati nei negoziati. Ma sul piano climatico il compromesso resta evidente: nessun riferimento all’uscita dalle fossili, nessun richiamo ai paragrafi più ambiziosi del Global Stocktake, nessuna reale spinta alla mitigazione.

Tra slogan sulla “COP della verità” e compromessi indeboliti sul futuro dei combustibili fossili, Belém lascia un messaggio chiaro: il mondo sa cosa dovrebbe fare per restare entro 1,5 °C, ma continua a non farlo abbastanza in fretta.

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